Archeologia

"Siamo appassionati di brutte immersioni!”

In mezzo al mare tra distese di sabbia e praterie di posidonia alla ricerca di nuovi siti di immersione non è raro incrociare le rotte di antiche navi e commerci di uomini del passato.

Questa passione ci ha spinto ad elaborare sistemi di ricerca subacquea georeferenziata che negli anni hanno prodotto interessanti rinvenimenti tra i quali il relitto “delle antefisse”al largo della baia di cala Sinzias in Sardegna.

Abbiamo inoltre partecipato a diversi cantieri e progetti legati alla ricerca e documentazione subacquea, anche all’estero.

Gran parte dei nostri rinvenimenti sono stati effettuati nel tratto di mare compreso tra Capo Ferrato e Villasimius e regolarmente segnalati alla Soprintendenza archeologica di Cagliari ed Oristano.

Storia di un rinvenimento

"Ho le reti incastrate sul fondo, puoi farmi il favore di andare con le bombole a dare un’occhiata?". Questa, più o meno, la richiesta di un amico cagliaritano che ha dato inizio alla storia.

Scesi infatti, lungo la rete in un fondale di 33 metri, in mezzo ad un mare di posidonie, ecco definirsi davanti a noi la piccola secca. Pochi metri di diametro in un tratto di fondale completamente trascurato dai sub perché caratterizzato da sabbia e posidonie. Una minuscola oasi, insomma, abitata da tantissimo pesce il cui comportamento "sprovveduto" ci fa subito capire di essere i primi a mettere gli occhi su tanto ben di Dio. Come ciliegina sulla torta, quasi appoggiata sopra un lastrone, mezza anfora completa di anse ed orlo.

Da quel giorno è salita la febbre della ricerca ed anche i subacquei che si rivolgono a noi per essere guidati sott’acqua, spesso preferiscono estenuanti ricerche in fondali apparentemente insignificanti per le immersioni. A volte l’immersione finisce senza aver trovato altro che sabbia, altre volte un collo d’anfora, un ancora in piombo o qualche nuovo scoglio da aggiungere alla lista delle immersioni, ci ripaga della fatica.

È così che abbiamo trovato il "relitto delle antefisse", pinneggiando come matti e fantasticando sugli indizi che si aggiungevano di volta in volta. Da allora sono passati molti anni e molte esperienze si sono aggiunte a quel primo episodio. L'esigenza di affinare le tecniche di ricerca in mare ed elaborare nuovi sistemi come il video/gps Nemo, ci ha permesso di effettuare altri ritrovamenti e partecipare ad importanti iniziative. Siamo stati chiamati in un progetto di studio e censimento degli elementi palafitticoli nel lago di Varese e a Ile à Vache di Haiti nell'ambito del Museo della Pirateria. Per il museo di Castiadas abbiamo allestito una sezione di archeologia subacquea e realizzato un prodotto audiovisivo teso a valorizzare il territorio.

Ma la scoperta più importante è avvenuta dentro di noi nella consapevolezza dell'importanza di osservare, documentare e studiare quello che il mare conserva. Anche un solo coccio di anfora può fornire informazioni determinanti per ricostruire un contesto storico. Trasmettere tale consapevolezza può inoltre combattere la tentazione di fare bella mostra di reperti nel proprio salotto di casa!!!! Insomma, più che la legge ed i proclami potè una rete incastrata sul fondo.

Franco Calderini (Istruttore FIPSAS)

Il relitto

I ritrovamenti archeologici subacquei, lungo le coste della Sardegna, sono piuttosto frequenti. L’isola ha costituito nell'antichità un punto di riferimento importante sia per le sue risorse sia per i commerci che si svolgevano nei centri costieri, ma anche perchè, data la sua posizione nel Mediterraneo, rappresentava un punto di riferimento importante per qualsiasi rotta.

I lungo sviluppo delle coste e la frequenza degli approdi giustificano perciò la presenza di un gran numero di relitti, con carichi di consistenza e natura diversa, non necessariamente destinati alla Sardegna. D’altra parte i naufragi costituiscono a un tempo la testimonianaza dei traffici che univano le sponde del Mediterraneo e, insieme, il segno di un rapporto commerciale non portato a termine perchè interrotto da un evento imprevisto ed imprevedibile.

E’ difficile, così, stabilire dove fosse diretta la nave con un carico di materiale da costruzione che, in un giorno del I secolo d.C. vide la fine del suo viaggio a circa un miglio dalla costa di Cala Sinzias, nella Sardegna sudorientale. Fu certo una perdita economica per chi in quel viaggio aveva investito i propri capitali. E fu forse una tragedia umana se l’equipaggio non riuscì a sfuggire all’affondamento dell’imbarcazione.

E' tuttavia da quel momento drammatico del passato, che lo scavo archeologico può in parte ricostruire, riaffiorano elementi preziosi per comprendere, attraverso i materiali trasportati, non solo la datazione del relitto ma anche per ampliare le conoscenze su alcuni tipi di prodotti ed il loro commercio.

Recupero di materiale di grande interesse scoperto e segnalato dai fratelli Franco e Ferdinando Calderini, il relitto, che giaceva ad una profondità di circa 30 metri, è stato oggetto, con fondi ministeriali, di alcune campagne di scavo e di prospezioni mirate a definirne l’estensione ed i modi della giacitura, recuperando una parte dei materiali che sono apparsi subito di eccezionale interesse.

Si tratta per lo più, infatti, di tegole a margini rialzati e di coppi destinati alla copertura di un edificio probabilmente pubblico di una certa rilevanza, poichè insieme agli embrici piani di tipo consueto compaiono sul relitto numerosi embrici dotati di antefissa decorata a palmette. Queste, affiancate, avrebbero costituito la decorazione sommitale della costruzione, formando un’unica fascia decorativa ritmata dall’alternanza di palmette diritte e capovolte, forse sottolineate dall’uso del colore.

Alla funzione estetica la particolare conformazione degli oggetti univa la funzione pratica di formare, dietro le antefisse, una sorta di canale continuo per il deflusso delle acque piovane, convogliate così, probabilmente, verso gli angoli dell’edificio.

L’esistenza di due tipologie diverse di decorazione, l’una più alta con palmette a lobi distesi, l’altra più bassa e con lobi ripiegati ad uncino, fa presumere che i due tipi di tegole fossero destinati a settori diversi del tetto, se non anche all’utilizzo in due edifici differenti. Ritrovate per lo più, e spesso in frammenti, negli scavi terrestri, le antefisse decorate come queste a motivi vegetali costituiscono in genere la decorazione dei coppi, cioè di quegli elementi curvi e allungati che coprivano i margini rialzati degli embrici, piuttosto che degli embrici stessi e molto spesso sono contenuti in strati di crollo o di abbandono che riducono la possibilità di datare l’epoca della loro realizzazione. Ciò rende ancora più significativa la scoperta del relitto, dove gli oggetti fanno parte di un contesto “chiuso” ed omogeneo, databile con una certa sicurezza attraverso i pochi elementi di accompagno restituiti per il momento dallo scavo.

Sono stati raccolti infatti, insieme alla “fornitura” per il tetto, anche alcune piccole basi in terracotta e parti di un particolare tipo di anfora che, destinato a contenere frutta, era prodotto in Campania nel I secolo dopo Cristo. Si tratta dei cosiddetti cadi, cioè di contenitori a bocca larga e corpo affusolato, con anse poste sulla parete , che non ebbero una vita particolarmente lunga ne un’ampia area di diffusione ma che, proprio per questo, appaiono preziosi per individuare, almeno, come ipotesi di lavoro, il tempo ed il luogo della produzione degli embrici; per quest’ultimo aspetto le analisi delle argille, tuttora in corso, potranno offrire prove più certe, anche se è già possibile trovare i migliori riscontri proprio nelle officine del Tirreno centrale.

Quanto alla destinazione del carico, come si è visto, sarebbe comunque azzardato avanzare ipotesi. Gli scavi condotti in Sardegna non hanno mai messo in luce embrici dotati di antefisse, mentre sono stati ritrovati a Cagliari, in passato, coppi in marmo con eleganti antefisse a palmetta databili poco più di un secolo più tardi, riflettendo la continuità di un certo gusto decorativo.

Donatella Salvi
(Direttore Soprintendenza Archeologica Cagliari e Oristano)

Ricerca scientifica ed immersione sportiva

Per due anni, nel 1997/1998, ci siamo impegnati con pochi fondi, forze ridotte ma tanta volontà ed idee chiare, sul sito del Relitto delle Antefisse. Come obiettivo, la realizzazione di una mappatura dettagliata del fondale, così da capire meglio la distribuzione del carico e la dinamica della sua ricopertura. Non è stato un lavoro archeologico in senso stretto ed anche se si sono utilizzate metodologie di rilievo tipiche della topografia terrestre, i risultati appaiono più interessanti se visti con l’occhio del geologo o del restauratore.

Il fondale, anche se prevalentemente sabbioso, presenta in questa zona una morfologia articolata grazie alla presenza di barriere di posidonia vecchie di secoli che disegnano isole e canali. Qua e là ristretti affioramenti di lastre calcaree (le beach rocks di antiche spiagge) si addossano alle posidonie creando le tane dove il pesce stanziale trova rifugio.

Sul relitto e sul relativo carico disperso, tutto è diverso: la posidonia è più giovane e rada anche se i suoi rizomi sono ben abbarbicati ai sedimenti del fondo. Il carico, così, disegna un accumulo di più di 70 metri di lunghezza e circa 50 di larghezza, che nel suo punto più elevato supera di circa un metro il livello del fondo.

Ovunque, sotto una successione di tre diversi strati di ricopertura, le sonde metalliche denunciano la presenza del carico. Una spinta delle braccia ed il sondino di due metri affonda nel terreno; trenta, cinquanta, ottanta centrimetri e ... toch l’arresto della sonda ed il suono metallico ci fanno “sentire” la ceramica.

E tutto viene registrato, fotografato, misurato, disegnato, posizionato sulle piante e sulle sezioni che descrivono e ricoprono l’intero sito. Circa 500 mq di area coperta dall’indagine e più di 20 carotaggi del fondale realizzati lungo due direttrici principali di riferimento. Una tecnica mutuata dalla geologia questa, ed applicata su questo sito seguendo una metodologia tanto semplice quanto faticosa: un tubo di PVC, una mazza da 4 Kg e tanta aria a disposizione.

Nei 20 minuti di immersione a 30 metri di fondo, erano d’obbligo il cambio del “battitore”, ma anche lunghe soste di decompressione. Certo è che se non si fosse avuta la partecipazione di un nutrito numero di subacquei sportivi in vacanza, sarebbe stato difficile portare a termine tutto il cantiere. Ogni sera, quando si definivano i turni di lavoro, si facevano gli abbinamenti in modo che potessero operare insieme un operatore specializzato ed uno sportivo.

Dopo le prime immersioni e le necessarie spiegazioni sul da farsi, diveniva quasi obbligatorio fare una vera selezione tra gli aspiranti. Sarà stata la curiosità di un’immersione diversa o il fascino di operare su un vero sito archeologico, comunque sia, la partecipazione era spontanea e sentita ed alla fine del cantiere il dispiacere è stato vero, come evidente l’accresciuta coscienza di “volere” rispettare e proteggere i beni archeologici subacquei lì dove sono stati trovati.

Costantino Meucci
(Istituto Centrale per il Restauro - Roma)

Ricerca subacquea sui siti palafitticoli del Lago di Varese

La prima parte del lavoro ci ha visti impegnati insieme alla Soprintendenza ad acquisire ed interpretare informazioni basate su rilievi, in alcuni casi anche accurati, effettuati da ricercatori dell’800. Altro aspetto approfondito riguarda la variazione di livello e quindi lo spostamento della linea di costa che il lago, di origine morenica, ha subito nel corso del tempo.

In questa fase ci siamo avvalsi anche del prezioso contributo dei pescatori del luogo e di un esperto fotografo naturalista. Organizzata la base logistica presso il centro canottieri di Gavirate abbiamo aperto il cantiere.

Il progetto prevedeva la ricerca di superficie mediante telecamere filoguidate, la registrazione in formato digitale delle immagini e la loro contestuale geolocalizzazione. A questa fase sono seguite quelle di posizionamento degli elementi palafitticoli, rilievo topografico e campionature per le analisi dei materiali lignei.

A fine lavoro è stata prodotta la restituzione grafica della distribuzione dei siti e della loro consistenza, nonché la documentazione filmata in formato digitale del loro stato di conservazione.

Il progetto è stato ideato dal dott. Costantino Meucci, i lavori sono stati diretti dalla dottoressa Barbara Grassi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia.

Contributi operativi e di consulenza sono stati forniti dagli amici Marella Labriola, Stefania Caramanna, Serena Bavastrelli, Claudio Malez, Armando Bottelli e Fabrizio Salvatelli.